Luigi Fantini, autonominatosi "Gigiat", fu per molti decenni punto focale delle varie ricerche dell'Appennino bolognese che andavano dalle grotte alla preistoria, dall'edilizia antica alla mineralogia per non parlare di altre divagazioni in cui era facile finisse con la sua mente "vulcanica" tanto per rimanere nell'ambito geologico. Importantissimo, per non dire decisivo, fu il suo intervento in ambito speleologico, di cui fu sempre la punta di diamante di quello bolognese e che guidò nelle varie ricerche fino alla fine degli anni trenta e le cui maggiori espressioni furono la scoperta e l'esplorazione della grotta della Spipola e l'edizione de Le Grotte bolognesi. Attorno agli anni Quaranta si diede alla scoperta e alla fotografia delle antiche case dell'Appennino bolognese che evidenziarono come spesso, nelle costruzioni edilizie, intervennero particolari storici e artistici di cui nessuno si era mai accorto. Fu una grande fortuna per gli studi di questo contesto perché la guerra, che per misteriosi meandri era finita proprio in questa zona con la linea Gotica, fece scempio di molte di queste evidenze e le foto di Fantini sono oggi l'unica e preziosissima testimonianza.
La storia della tormentata edizione di Case e torri antiche dell'Appennino bolognese merita di essere tramandata.
Fantini (questo era il comune nome con cui fu sempre chiamato da quasi tutti) fu sempre un entusiasta ricercatore, ma per quanto fosse una persona estremamente parsimoniosa con sé stesso, poco o nulla fece mancare a quelle spese che coinvolgevano i suoi studi: libri, lastre e macchine fotografiche, a volte il binocolo ed altro che intaccavano le sempre non floride finanze di un dipendente comunale prima e di un pensionato dopo. In lastre e carta fotografiche spese un patrimonio perché se le foto, a suo giudizio, non erano perfette, le cestinava o le donava agli amici: il sottoscritto spesso beneficiò di questa severa selezione. Quanto poi alla macchina fotografica, malgrado il progresso del settore, operò sempre con la sua Leica. La sua esposizione fu quasi sempre nov e un zinquantesum (nove e un cinquantesimo), che lo accompagnò in quasi tutta la sua attività. Il Museo Civico Archeologico con cui collaborava, gli aveva messo a disposizione un localetto che egli aveva trasformato in gran parte nel suo laboratorio fotografico e nel quale troneggiava un cavalletto di sua elaborazione con neon, con il quale fotografava i reperti e che veniva sormontato dalla gloriosa Leica. Un po' per risparmio e un po' per far le cose a modo suo, Fantini si sviluppava e stampava le sue immagini che poi andavano soggette alla sua severa e citata selezione.
A cavallo degli anni Cinquanta e sessanta la professoressa di mineralogia Annamaria Tomba si rese disponibile alla pubblicazione delle "Case antiche", ma il costo dell'intera e immane opera a causa delle moltissime figure necessarie, lievitò moltissimo e la Tomba dovette tagliare molte figure: fu per Fantini una dolorosissima amputazione che lo rese alquanto critico sul volume. La collaborazione successiva con la Cassa di Risparmio di Bologna diede all'opera quella completezza che ancor oggi la rende un capolavoro dell'edilizia rurale bolognese.
Non si fermò qui la vulcanica mente di Fantini. Perlustrando l'Appennino ebbe a riscoprire i materiali paletnologici dei fiumi e delle colline bolognesi, dal Santerno al Samoggia, ricerca che era rimasta ferma dai tempi di Giuseppe Scarabelli e di Giovanni Capellini nel secolo XIX: si trattava di reperti per lo più in ftanite appartenenti al Paleolitico inferiore e medio. Purtroppo, la collaborazione con alcuni paletnologi si rivelò per lui in una profonda delusione che molto calmò la gioie di questi ritrovamenti tant'è che ebbe a coniare una delle sue famose frasi
Quando un autodidatta si mette in mano esperta, la fregatura è certa
a cui seguirono altre ben più pepate fra cui il pesante aforisma a proposito di un paio di personaggi bolognesi
In dù i fan quesi un'imbezel (in due fanno quasi un imbecille).
Una trasferta dal figlio Mario, in terra marchigiana, lo portò alla scoperta della preistoria di quella regione. Raccontava "Gigiat" che nella città dorica un giorno ebbe ad assistere allo scarico di un camion pieno di ghiaia che conteneva alcune lame di quella meravigliosa selce rossa tipica di quella zona; chiese al camionista da dove veniva quel carico ed egli gli indicò il fiume: una quasi immediata ricognizione gli diede modo di trovare numerosi e interessanti reperti, ma quei materiali pur bellissimi e interessantissimi non lo colpirono molto, anche se a volte con qualche volenteroso non mancò di fare qualche ricerca nel Musone, nel Cesano e principalmente nel Misa e Nevola: la ftanite del Bolognese aveva tutt'altro "sapore".
A quei tempi (siamo attorno agli anni '60) altri ne seguirono le tracce. Questi concorrenti gli furono sempre invisi e non mancò di esprimere il suo disappunto con manifestazioni nervose e colorite e, malgrado fosse ispettore onorario della Sovrintendenza alle Antichità, non risulta che mai ebbe a fare esposti, ad eccezione di quello del presunto scavo alle grotte del Farneto di cui diamo conto nel capitolo di questo sito dedicato al Gruppo Grotte Francesco Orsoni a cui si rimanda il cortese lettore. A questi, Fantini riservava alcuni vocaboli, scaturiti nelle sue elucubrazioni notturne e trascritte nei"pizzini" come "raccoglione", "ricercaffone" o "cercopiteco", vocaboli che col tempo sono stati "veicolati" da qualche critico quando si vuol parlare male di questo tipo di personaggio.
Come lui stesso raccontava, alla notte dormiva poco e durante le veglie nel buio della sua camera "tutti usi" era solito scrivere gli appunti per non dimenticarseli. Spesso, diceva, alla mattina trovava il pavimento pieno di foglietti, oggi chiamati pizzini.
La camera, che a cominciare da via Gigli per proseguire in via Emilia levante, gli riservava il figlio Mario, era sempre in "ordine sparso", né le raccomandazioni della nuora sortivano qualche effetto. In quella stanza c'era la sua vita, i suoi materiali, strumenti, "fascicoli" si direbbe ora, oltre al letto e a poco altro modestissimo arredamento.
Era una persona estremamente magnanima e spesso donava le cose quando facevano "sbavare" qualche visitatore, cose che non fossero di stretta necessità.
Collaborò con lui il nipote Enrico, che spesso disegnò quello che non era fotografabile e gli fu a fianco per parecchi anni.
La paletnologia di Fantini non si fermò al Paleolitico classico. Nelle sue ricerche aveva notato la presenza di ciottoli abbondantemente fluitati e leggermente sbozzati alla guisa del paleolitico arcaico africano, che in Italia a quei tempi era praticamente sconosciuto. Ebbe quindi modo di risalire i fiumi Zena e Idice per arrivare alle puddinghe del monte delle Formiche e di Livergnano dove constatò appunto la presenza degli stessi ciottoli in sito. Malgrado i numerosissimi reperti, la scienza ufficiale non si interessò dell'argomento e per Fantini fu un dolore immane: incalzato dagli incitamenti di amici e conoscenti di dare alle stampe la scoperta per opportuna divulgazione, egli riuscì a scrivere solo il contributo
La sfinge appenninica mi ha parlato
comparsa appunto nella strenna della Fameja bulgneisa che spesso pubblicò suoi articoli di vario argomento.
Tirò fuori da un oblìo di decenni la figura di Francesco Orsoni, scopritore della grotta del Farneto di cui svelò alcuni particolari della sua vita.
I suoi minerali preferiti furono le septarie, i quarzi delle varie località del bolognese e i gessi cristallizzati di alcune grotte, ma nulla conservò: bastava che qualcuno "sbavasse" che egli se ne privava volentieri. I fossili non gli entrarono mai in simpatia, ma i temi di ricerca gli mancarono.
Procedendo con gli anni per Fantini divenne sempre più difficoltoso recarsi in bicicletta nei luoghi che, a parer suo e raramente si sbagliava, potevano avere evidenze interessanti. Fu così che io e l'amico Zanon avemmo modo di ospitarlo in automobile per molte escursioni nell'Appennino.
Pur nelle ristrettezze che lo accompagnarono sempre nella sua vita a causa di quanto antecedentemente scritto, Fantini era un uomo assolutamente modesto e parco: il suo pranzo consisteva quasi sempre in pane ed arance quando questi frutti erano disponibili; per quanto riguarda il pane non aveva problemi: una volta tirò fuori dallo zaino un sacchetto di plastica con un po' di pane secco, gli saltò sopra con gli scarponi e, dopo averlo sbriciolato, se lo mangiò, con la sua immancabile arancia. Quasi mai accettava cibo da altri e non fu mai visto bere altro che acqua e in certe ore del giorno una tazzina di caffè.
Luigi Fantini, Carlo Canavari e Francesco Marchesi al matrimonio di Romano e Giuseppina il 30 giugno 1963. |
29 giugno 1961 a Livergnano. Da sinistra: Zanon, Travaglini, Fantini, Guerra, Gasperini. Fotografo: Gallingani |
Chi ha avuto modo di frequentarlo, ricorda ancora la sua saggezza, la sua cultura (nonostante avesse frequentato la quinta elementare) e la sua simpatia. Quest'ultima virtù innata, trasformava una interessante escursione in una allegra giornata: i cavalli di battaglia erano molteplici. Suo poeta prediletto era Gioachino Belli, romano, di cui aveva l'opera omnia e che rimpiangeva il fatto che Belli scrisse in romanesco e non in bolognese. Il cavallo di battaglia del cavallo di battaglia era Santaccia di piazza Montanara in cui Luigi Fantini aggiungeva la sua straordinaria mimica alla vena poetica del Belli: roba da Vittorio Gassman e da Arnoldo Foa.
Di questa poesia che certo non ha mai brillato per pudicizia, c'erano alcuni versi in cui Fantini passava al sublime e gli auditori si dovevano tenere la pancia per non farla scoppiare. Quando poi arrivava al finale e Santaccia, in quello straordinario atto di misericordia dice al fanciullo
E cqui Ssantaccia: «Aló, vvièccelo a mmette: sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio de cuell'anime sante e bbenedette»
Fantini superava di gran lunga i grandi attori citati ed altri mentre egli era certo che Santaccia non finì all'Inferno. Altre poesie del Belli preferite da Fantini erano Er patto stucco che terminava con
«sò ttutti tui, uno pe vvorta»
Oppure "La bbella Giuditta" con questa forte frase:
cor un corpo2 da fia3 de Mastro Titta lo mannò a ffotte in ne le f... eterne:
Altro pezzo da novanta era "Er mostro de natura" che terminava con
ma non me frega ppiù sto monzzignore!
Infine c'era La madre de santi e Il padre de santi in cui la ricchezza dei termini romaneschi relativi a organi umani metteva a repentaglio lo scurrile ed ampio dialetto bolognese.
Alla sua voce baritonale, aggiungeva l'espressione burbera a cui facevano da contorno gli occhi sbarrati e brillanti e il diabolico pizzetto.
Ogni tanto se ne veniva fuori raccontando quello che era accaduto ad una birocciaia in via Orefici alla quale, mentre scaricava al mercato il suo carico, un birbaccione aveva dipinto di minio il pene notoriamente abbondante dell'ignaro somaro: La "signora" fra innumerevoli imprecazioni e irripetibili bestemmie dovette pulire l'"organo" con fogli di giornale fra i passanti sbalorditi.
Quanto riportato è solo una piccola parte di quelle ricordate a memoria anche perché Fantini la ebbe buonissima, ma quando si trovava nella sua stanza col libro dei sonetti in mano, allora se li sceglieva e li recitava con sommo pathos.
Fantini era anche eccezionale nelle sentenze e nei proverbi, molti dei quali erano diretti a personaggi bolognesi che non avevano trovato il suo apprezzamento.
Dopo la stampa delle case antiche, molti amici lo consigliarono di attendere ad un'opera relativa alla così detta "pebble culture" di cui aveva trovato innumerevoli reperti, reperti che finivano nei fustini di detersivo che egli appunto riempiva di "sassi" e botroidi. Questi fustini sono oggi ammirabili al Museo dei Botroidi di Tazzola in una esposizione di questi curiosi materiali naturali. Fantini, a parte l'articolo della Sfinge appenninica, non trovò modo di applicarvici asserendo che ancora c'era da trovare altro materiale prima di procedere ad uno studio scientifico. Malgrado le contrarietà fece di tutto per trovar credito delle sue scoperte: solo il professor Alberto Blanc ebbe ad esprimergli attenzione e un giudizio non negativo di quegli antichissimi materiali. Anche il professor Lipparini, nella carta geologica del Bolognese relativa a questi affioramenti ebbe modo di citare le sue ricerche e scoperte: due eccezioni in un mare di assenza che però gli furono sempre di sprone e gli diedero modo di non arrendersi.
Passarono anni e il giorno giusto per cominciare non fu mai trovato. Non per niente, ogni tanto citava Bertoldo e il suo albero.
Molto pesò il silenzio delle autorità scientifiche che mai si interessarono di questo misterioso materiale, malgrado i suoi solleciti.
Procedette purtroppo ed inesorabilmente una forma di senilità che offuscò la mente di questo genio. Poi venne la morte.
Era il 12 ottobre del '78.
Al funerale fui assente: ero a qualche migliaia di chilometri, in Africa, a sassi, secondo un modo di vivere che Fantini stesso col suo esempio ed altri avevano contribuito a plasmare: mi avrebbe senz'altro perdonato. Ora Fantini riposa, come da sua volontà nel piccolo cimitero del monte delle Formiche a pochi passi da quelle puddinghe che tanto gli avevano dato. Niente di più degno di un personaggio che tanto amò l'Appennino Bolognese. Un giorno proposi ad alcuni amici di tentare di valorizzarlo a livello bolognese, ma senza successo. Ritornai nel mio guscio, tanto Fantini me lo portavo dentro.
Storico incontro alla grotta del Farneto, anni '60. Da sinistra: Fantini, Vico Greggio, Martinelli, Guerra, Giulio Greggio. |
Luigi Fantini in "tenuta da combattimento estivo" |