AUTONECROLOGIO

Si è tolto dalle scatole disse uno dei suoi più cari amici, bolognesi DOC in fase di estinzione.
Figuriamoci quelli che lo avevano avuto in antipatia per gli innumerevoli suoi difetti. Una specie di grido di giubilo che attraversò le strade della dotta e grassa città. Non ci furono manifestazioni di gioia e fuochi d'artificio solo perché lo proibivano le leggi anti Covid-19.
Così se ne è andato il Guerra. Era ora. Finalmente, si può dire che il Padre Eterno si è ricordato dell'Umanità. Un rompiscatole in meno, per dirla come la diceva lui, con una delle tante parole grasse alla bolognese con cui farciva i suoi discorsi da sempre monotematici. Il suo cavallo di battaglia, ovvero il suo quasi unico tema furono i fossili di cui era fanatico, talebano, gesuita. Povero Guerra, non si è mai reso conto della sua monotonia, lui che pare non abbia fatto altro di andarseli a cercare tirandosi dietro quella povera donna, la moglie Giuseppina, che nella follia paleontologica se la portò dietro per ogni dove pur di portarsi a casa qualche sasso. (pare però che a casa comandasse la Francia). Dopo essersi liberato dell'industria dolciaria, non aveva più voluto né superiori, né dipendenti, né soci e, sempre a dir suo, c'era riuscito mettendo insieme tutta quell'accozzaglia di fossili che aveva raccattato in mezzo mondo con cui si era fatto una mostra, di fossili chiaramente, e con cui aveva vivacchiato fino alla pensione. Rimase in una struttura lombarda per ventisei anni con una stretta di mano e quando gli chiesero d'andarsene, se ne andò, con una stretta di mano. Era comunque stramboletto, non sapeva giocare a burraco, a suo dire si era dimenticato della briscola e del tresette, andò allo stadio un paio di volte in tutta la sua vita, nulla sapeva di calcio e di tutti gli altri sport, di telefonini e di computer non andò oltre all'alfabeto, un povero fanatico che aveva fatto dei fossili una ragione di vita. Non contento si mise a raccogliere libri nuovi e vecchi, di fossili chiaramente, e della sua biblioteca se ne vantò sempre, come per la sua collezione di fossili di cui, andava dicendo, se l'era fatta scavando, comprando, barattando e principalmente commerciando alla fenicia e proprio in Fenicia andò molte volte, guerra civile permettendo e non, per portarsi a casa qualche pesce fossile in compagnia di qualche familiare, come era solito fare. Lo stesso successe quando scoprì i fossili del Marocco, portandosi a casa chili, o quintali, o tonnellate di sassi come se in Italia non ce ne fossero abbastanza. Una volta, questo illuso, si era messo in testa di cambiare la legge che tutela i fossili italiani (si fa per dire) andando a parlare con alcuni professori di alto loco e, a dir suo, disponibili a parlarne, ma fu impallinato in quel di Fano dove qualcuno disse che questa crociata, Guerra la faceva per tutelare i suoi commerci. Con simili pesanti accuse il tutto decadde e Guerra se ne tornò a casa con le pive nel sacco: non ne volle più sapere di questa storia e andava dicendo che in quell'occasione le pallottole gli erano arrivate nella schiena invece che nel petto, cosa ben più dolorosa a suo dire. Gli andarono poi a raccontare che un relatore di tale accusa, anni dopo, fu "impallinato" da un amico invidioso e gli sequestrarono tutto: non commentò, ma in quelle occasioni si inventò la parola "paleontofilo" (Notiziario di Mineralogia e Paleontologia N. 10 del 1975, pagina 5) che oggi è diventato comune.
Si interessò anche dell'attività dello zio della moglie, Efrem Bartoletti, poeta, politico, emigrante, minatore, che col matrimonio era anche suo zio. Anche qui fece conferenze, mostre, articoli ed altro, tanto che fu fatto cittadino onorario di Costacciaro, comune dell'alta Umbria. Invero anche qui fu "impallinato" da qualcun altro che per parecchi lustri lo estraniò da ogni attività culturale di quel comune: allora il Guerra si sedette sulle sponde del Chiascio ed aspettò il passaggio degli interessati anche perché, come andava dicendo, i quaranta chilometri quadri di quel comune erano abbastanza pochi rispetto ai centocinquanta milioni di chilometri quadri del resto delle terre emerse, con i quali non ebbe mai ad annoiarsi. A suo dire: acqua passata non macina più, ma è sempre meglio tenersi vicino il salvagente.
In quello stesso comune di Costacciaro, proprio dentro alla grotta di monte Cucco, aveva conosciuto quella povera creatura che poi sarebbe diventata sua moglie: orbene quella martire fu tanto santa che raramente si lamentava del suo destino crudele a fianco del turbolento marito tanto che andava dicendo che in vita sua, con quell'uomo, non aveva avuto modo di annoiarsi: doppia santità. La povera creatura lo aveva quasi sempre seguito nei viaggi che il Guerra si faceva a oriente e occidente per tentare di saziare la sua brama di fossili: fu così trascinata per i monti del Tauro e del Libano fino ad Aqaba e Petra ad oriente e sui monti dell'Atlante e nei deserti nella parte occidentale del Mediterraneo, in Marocco, Algeria e Tunisia: vi furono anche spedizioni in piena estate in pieno deserto in cui Romano rischiò di morire giovane a causa di una bibita ghiacciata. Come andava dicendo, si sentiva il balano di suo marito. Quando Giuseppina, per vari motivi non poteva accompagnare il marito a zonzo per il Mediterraneo, furono i figli ad accompagnarlo in queste scampagnate da diecimila chilometri.
In pensione volle andare a vedere l'Ararat per vedere dove era sbarcato Noè e ci andò con moglie, figlia e nipotino di sei anni, in macchina chiaramente.
Una delle manie "romanesche" era infatti l'automobile: usò il meno possibile navi ed aerei. Andava dicendo che lui era nato con quattro ruote sotto il sedere e che l'automobile per lui era il miglior pensatoio di questo mondo. Fece spesso in auto quello che poteva fare con altri mezzi a conferma di tal mania.
Per economia familiare, malgrado le frequentazioni sahariane, quel matto di Guerra, mai si concesse un fuoristrada perché a suo dire faceva cinque o seimila chilometri di pista e centomila e più chilometri di strada asfaltata, anche perché la matematica non avrebbe quadrato. Stessa fine fece l'idea del camper, sempre agognato, mai acquistato. Se la cavò con tende ed alberghi. Risolvette il problema del fuoristrada attrezzando i suoi normalissimi mezzi con una paracoppa in alluminio da sei millimetri che proteggeva tutti gli organi dell'automobile: Così potè vagare per il deserto con quelle sfortunate Regata della FIAT che rivendeva stremate da migliaia di chilometri di pista: poveri acquirenti del suo usato che sarebbe stato meglio chiamare abusato o violentato! Se ci fosse stato l'EMPA, (Ente Nazionale Protezione degli Automobili) si sarebbe preso tante denunce; nulla però ebbe mai da ridire l'ENPA (Ente Nazionale Protezione Animali) perché gli animali interessati, fossili, non sporsero mai querela. Però in macchina aveva tutto il suo mondo, caffè, tonno e sacchi a pelo pronti alla bisogna. Anzi a dirne un'altra di queste manie, c'era anche il caffè, da quelli mattutini a quelli fino alle cinque del pomeriggio dopo di che era severamente vietato assumerne una sola goccia. Nelle giornate toste, quelle da mille e più chilometri, ogni qualche ora si fermava e con la sua attrezzatura se ne faceva uno col fornellino sulle piazzole di sosta. Una volta l'operazione di caffeinizzazione fu fatta in macchina in pieno viaggio. Per questo vizio aveva messo insieme una piccola attrezzatura che gli permetteva di "spararsene" uno in ogni posto ed in ogni momento. I "divini" erano quelli in pieno deserto con una infinita veduta a trecentosessanta gradi, fra un fossile e l'altro. A suo dire, quando le sparava grosse e lavorava di fantasia, più volte lo avevano arrestato per assunzione di caffeina, cosa che egli faceva con grande rassegnazione perché il carcere della Dozza era proprio nel suo quartiere o quasi e la moglie non gli fece mai mancare buon cibo: diceva lui! In tutti i modi di caffè ne bevve tanto. Ultimamente, ultraottantenne non gliene fregava più di niente perché per quanto ne assumesse, sarebbe finito ai domiciliari, in poche parole, nel suo studio che considerava il più bel posto del mondo alla tavola della moglie che fra l'altro era anche una brava cuoca, cuoca a cui imputò spesso il suo quintalaggio che oscillava fra due o tre cifre. La moglie ci provò a metterlo a dieta, ma il magnone gli diceva che non avrebbe mangiato per miliardi d'anni e riprendeva a mangiare.
Per quanto riguarda l'ENPA, quella degli animali, di animali non ne volle mai neanche sentir parlare di metterseli in casa. Invero moglie e figlia provarono ad avanzare l'idea di tenere un gattino, ma lui, memore del gatto dell'amico Roberto Aldrovandi, pose sempre il suo veto
O dentro lui, o dentro io
andava dicendo nella sua breve ma vigorosa filippica.
Invero un animale lo avrebbe preso in casa e non lo fece solo perché sarebbe stato problematico tenerselo a domicilio: era il somaro, di cui si era follemente innamorato nel garage degli asini di Rissani ultima cittadina prima del deserto marocchino. Quando già nel 1976 giunse in quel sacro tempio di questo animale domestico ne fu affascinato perché proprio in quello spazio se ne potevano vedere una enorme distesa e anche di tutti i colori e proprio lì poté constatare l'asinità dell'uomo ovvero l'umanità dell'asino. Quelle povere creature in quel lager ne facevano di tutti i colori per sfuggire al loro destino crudele che i crudeli padroni li sottoposero a pesanti carichi e ad abbondanti somministrazioni di ancor più pesanti bastonature. Là potevano ragliare, ridere, spoltracciarsi, litigare, tentare di congiungersi alle amate creature con dimostrazione, spesso, della loro mascolinità che inorridivano certe turiste avvezza alla piccolezza dell'armamento dei propri compagni e in tali e tante pose che affascinavano lo spettatore. Lì, il Guerra, senz'altro per affinità, imparò a ragliare e ragliava benissimo tanto che scendendo nell'arena, i suoi confratelli gli rispondevano sonoramente: di questi dialoghi è severamente vietato dubitare perché si annoverano decine e decine di testimoni meravigliati di questi sonori incontri.
Una volta sulla strada del Tizi'n Tichka, sentì un collega ragliare e lo sciagurato bipede rispose. Il fratello affrettò il passo e quando furono vicini ebbero un dialogo durato qualche minuto: cosa si dissero, nessuno lo sa, ma se lo dissero.
Ultimamente, a dir sempre del somaro italiano, il garage degli asini è talmente depresso che ormai quei cari "pentapodi" si sono quasi estinti: toccherebbe farli patrimonio mondiale dell'umanità e iscriverli all'UNESCO.
Diceva lui che tempo e saggezza (quest'ultima, mai comprovata, che lui diceva di avere) a differenza del biblico Mosè, aveva il Ventalogo con nuovi, inediti comandamenti tratti dalle sue riflessioni spesso balorde. Ecco quelli che vanno dall'undicesimo al ventesimo. I precedenti sono quelli donati all'Umanità in quel del Sinai, che un dì Romano visitò per trarne ulteriori ispirazioni. Eccoli

11 fatevi i fatti vostri
12 chi non ha niente da fare rompe le scatole a chi ha da fare
13 non essere nemico dei nemici dei tuoi amici
14 cio' che non serve, rompe
15 siediti sulla sponda dell' uadi e aspetta
16 le esperienze non servono a chi le fa, figuriamoci a chi le ascolta
17 prima di suscitare ammirazione susciti invidia
18 quando uno ti frega non muoverti. potresti fare i suoi interessi
19 fin che la barca va, lasciala andare
20 la ricchezza non fa la felicita', ma e' meglio della miseria

Meditate!
Alcuni amici ben informati asseriscono che il Guerra abbia istituito anche il Trentalogo, ma pare che questi ultimi dieci siano talmente irripetibili che l'autore li ha messi in uno dei suoi libri e solo lui sa dove sono, tanto erano pieni di orrende verità cosmiche.
Da sempre era assillato da atroci dubbi su tutto e sul contrario di tutto, insomma come diceva lui stesso in una delle pochissime autocritiche ai suoi atteggiamenti, non la trovava mai pari, oppure la trovava pari con tutti quando era solo. Spesso, quando ricordava alcuni episodi della sua vita, era assillato dal dubbio che chi lo ascoltava riteneva fossero panzane: ne raccontava lo stretto indispensabile. Altri, sottovoce, però dissero che spessissimo era la purissima verità e quanto pareva le raccontasse grosse, era solo veritiero. Quando era assalito dalla follia paleontologica, non lo fermava neanche il diavolo. Una volta andò a trovare l'amico Luigi van Gorp di Anversa che in fatto di mattane era lì-lì. Luigi aveva nel tinello una vetrina in cui aveva esposto molti suoi reperti: fra questi non poteva sfuggire a nessuno che in quel contenitore oltre al corredo funebre c'era pure lo scheletro del suo proprietario per cui il van Gorp viveva sotto l'occhio di quell'individuo. Cerato, il grande Massimiliano con la Rosetta, vennero una volta dall'amico fiammingo e sentenziò
Gà il morto in cà (ha il morto in casa).
Una mattina, intanto che si faceva colazione, Luigi andò a tirar fuori da un cassetto sottostante lo scheletro una razza, la porse all'amico e gli disse nel suo italiano pasticciato dal fiammingo:
Sci, Romano, adesso ci sarebbe il Libano.
Fu una folgorazione come quella di san Paolo sulla strada di Damasco, forse peggio. Era il 2 di novembre 1972. Ritornato in patria con quella fissa nel cervello, fece tutto quello che doveva fare e il 19 dicembre con la piccola Luisa se ne partì per quel mitico paese. Altrove se ne racconterà il prosieguo.
Quel bolognese ogni tanto si ammalò.
Si prese due broncopolmoniti con pleuriti dovute ad un acquazzone che lo colse mentre cercava fossili naturalmente e sfiorò la tomba.
Un'altra volta si prese una pesantissima depressione che lo aveva ridotto ad una larva. Un luminario a cui si era rivolto, ne aveva consigliato il ricovero in manicomio, ma o per chiusura di questa struttura o per uno dei soliti colpi di fortuna che mai gli mancarono nella sua vita (si può vivere di fossili senza la fortuna?) non andò al novanta (L'ospedale psichiatrico Roncati di Bologna era o è ubicato in via sant'Isaia al numero novanta, ma i bolognesi per non farla troppo lunga lo chiamano col solo numero civico). La povera Giuseppina andò una mattina disperata dal macellaio; la cassiera ne vide l'angoscia e gliene chiese il motivo e la poverina gliela raccontò:
Per l'amor di Dio, non lo ricoveri, non ne uscirà più, Vada da Bergonzoni, qui in cima alla strada.
Bergonzoni, medico scapestrato, ma straordinario lo guarì in una quindicina di giorni, e Romano riprese il suo andazzo.
Qualche anno fa, di ritorno da Verona dove aveva fatto impazzire quella povera bibliotecaria del museo, la Bruna, alla ricerca di libri, opuscoli ed altro in quel tempio internazionale di storia naturale che è appunto il Museo di Storia naturale, quasi sconosciuto ai veronesi ben più esperti in etiliche bevande e salamelle, a poche centinaia di metri da casa, si sentì una forte fitta al petto. Si fermò un attimo e tutto tornò alla normalità. Qualche giorno dopo, il problema si ripresentò e si decise di andare in una delle cliniche più apprezzate della città. Il luminario cardiologo lo visitò e disse che a parer suo, parere da duecento euro, c'era ben poco, anzi, dal momento che c'era il collega che effettuava l'analisi del cuore sotto sforzo, sarebbe stato opportuno sottoporvici. Si sottopose e anche questo emise la sua sentenza, da centotrenta euro, in cui qualcosa c'era, ma tutto era nella norma. Qualche giorno dopo il problema ribussò al petto e il paziente andò dal suo dottore della mutua che gli disse:
Quando le capita metta queste pastiglie sotto la lingua. Se passa bene, se non passa chiami il 118.
Qualche sera dopo, essendo il Romano in poltrona a guardar la televisione, cosa rara per non dire rarissima, il dolore tornò, andò a letto e prese la pastiglia: il dolore rimase e fu ricoverato all'ospedale fra lo stupore dei famigliari: in pochissimi minuti arrivò una squadra armata fino ai denti alla guisa del Passatore al teatro di Forlimpopoli:
Signora, dissero alla moglie impietrita, glielo dobbiamo portare via.
Veramente l'interessato che aveva assistito alla scena ridendoci pure sopra, pensò per un attimo che quello spettacolo non gli apparteneva e che lo stavano portando a qualche autodromo. L'ambulanza andò a palla, all'ospedale, non si sa con quale sorpasso in curva, attraversò il pronto soccorso, fu infilato un ascensore che pareva volare anche lui e quasi istantaneamente gli fu fatto quel che dovevano fare e in un paio di ore era tornato sano come un pesce. A parte la quotidiana dose di pastiglie, dell'infarto se ne perse memoria ed ancora poco tempo dopo del fatal momento non se ne ricordava più. A conferma della riguadagnata salubrità con moglie e nipotino se ne andarono in Grecia pochi mesi dopo attraversando i Balcani, in macchina chiaramente, e finendo le vacanze in quella spettacolare isola greca che è Santorini.
Per un certo periodo di tempo sparì dalla circolazione (tempi beati quelli senza l'ingombrante presenza di quel rompi...) perché si era messo in testa di fare una serie di mostre di argomenti vari da offrire ai centri commerciali come forma d'attrazione. Vagò per anni per mercatini d'antiquariato alla ricerca di giornali, riviste, documenti ed altro, spesso insieme ad uno dei nipotini a cui insegnò l'arte della contrattazione, vista la sua pratica acquisita in Africa, principalmente fra le bancherelle di minerali del valico del Tiz'n Ticka, in Marocco, in altri tempi affollatissimo di tanti botteghini. Ne mise insieme oltre diecimila. Il progetto fu realizzato con cinquanta mostre cartacee a cui si aggiungeva quella degli immancabili fossili, ma la crisi del 2008 mise in ginocchio i centri commerciali e tutto finì salvo una valida cultura in tanti argomenti che se non altro lo fecero venir fuori un po' dalla malattia e monotonia dei fossili. Ma ricadde nell'errore.
Qualcuno addirittura lo aveva dato per perso o defunto, tanto che un caro amico di ritorno dal Marocco telefonò a casa per sapere se veramente Romano se n'era andato. Rispose all'amico Ernesto Ossola lo stesso Romano rassicurandolo che egli stava benissimo ed era in forma splendida: voci dell'Atlante.

Mio zio Efrem Bartoletti
Mio zio Efrem Bartoletti
Rotta per il Libano
Rotta per il Libano

Dopo la crisi del 2008, si ripresentò sulla scena dei fossili (non poteva essere altrimenti) con un nuovo filone, la storiografia paleontologica italiana scrivendo articoletti, libretti, conferenzuole ed altre attività che se non altro ancora per qualche anno permisero ai suoi neuroni di non fossilizzarsi (ne poteva essere diversamente).
Ancora una volta se ne andò per bancherelle e librerie d'antiquariato alla ricerca di libri antichi di fossili (vizio reiterato) possibilmente col più giovane nipotino Andrea che non sapeva quello che faceva: si dice che ne abbia una discreta biblioteca e che fino all'ultimo alito di vita è andato raccattando tutto quanto di cartaceo puzzasse di fossili. Peccato, a dire suo e di altri, che Lombroso era già morto altrimenti ne avrebbe fatto il soggetto di uno dei suoi tanti trattati. Qualcuno ne ipotizzò anche il titolo:
GUERRA E FOSSILI
che avrebbe fatto dura concorrenza al ben più famoso
GUERRA E PACE
di Tolstoj, anche se il Guerra di pace ne ebbe sempre poca risparmiandola tutta per il sepolcro. Adesso sarà contento!
Ora ha finito di rompere le scatole (lui da bolognese avrebbe usato un altro sostantivo intimo) e, se Dio vuole, la sua carne, che sapeva più di suino che di umano, tante salsicce si era sparato in vita sua, alimenterà una colonia di vermi che diventeranno grassi come lui.
Dopo attenta meditazione, aveva detto ai suoi che voleva essere sepolto nel cimitero del Caprile vicino a Costacciaro, essendo egli cittadino onorario di quel comune ed avendo trovato di suo gradimento quel praticello circondato di cipressi che appaiono al visitatore appena dentro. Disse ai suoi che aveva trovato anche la terra morbida e l'ambiente silenzioso e che il luogo era vicino ai siti fossiliferi del monte Cucco e a quella grotta in cui aveva lasciato le penne. In effetti aveva il diritto di un posticino, previa cremazione, nella tomba di famiglia del campo quarantacinque della Certosa di Bologna con vista san Luca, ma la cremazione mai gli garbò e poi a quella preferiva la sola crema goloso come era. Rimanendo sull'argomento gastronomico, la scelta di Costacciaro per l'eterna dimora fu anche dovuta a coppe, salsicce e ad altre diavolerie suine di quelle contrade: da quando nei primi viaggi in quelle dolci località umbre, gli furono fatti assaggiare dalla cara Carmela queste prelibatezze suine di quelle contrade, mai se ne dimenticò ed ancor poco tempo prima di finire nel carratone (come diceva lui stesso prendendo a prestito una delle tante frasi del suo "professore" Fantini. Il carratone era il carretto con cui i monatti portavano i morti appestati al cimitero), era stato portato alla completa rovina degli amici del Toppo. Il Toppo era un "eremo" in cui Claudio Sensi, anch'egli gaudente fossiliere, si era ritirato per scontare numerosi suoi peccati, nel senso umano, e nel quale spesso invitava i colleghi eremiti ed eremite a peccare di gola e di sassi. In un braciere esterno o in un camino interno che a guisa di altoforno non si fermava quasi mai, finirono mandrie e mandrie di suini per poi concludere la loro corsa nella pancia di quei pseudodigiunanti assieme a battaglioni, eserciti di bottiglie di vino di diversa provenienza che innaffiavano il tutto, il tutto poi affiancato da teglie di verdure alla griglia, dolcini, dolcioni, dolcetti, grappe, limoncelli e le varie diavolerie da bersi fornite anche da quel chimico forbito che è Marco, un contemporaneo alchimista di medioevale formazione. Poteva mancare il Guerra da simili diabolici consessi? Assolutamente no, anche perché su tutto aleggiavano ammoniti del Subasio, rinchonelle di varia provenienza, un pizzico di legno fossile di Dunarobba. Infernali consessi, potremmo chiamare questi assembramenti notturni anche se mancarono sempre scope e luna. Non mancarono mai le streghe quelle che facevano malefici dolci, salse diaboliche, e intingoli infernali, nè i diavoli sempre intenti a cuocere tagliatelle e ad attizzare il fuoco che tutto cuoceva e purificava. Poteva in tanta bestiale scena mancare il Guerra e la sua "ancella umbra" di cui ancora gli scrittori umbri ne scrivono del famoso "ratto" nelle viscere del monte Cucco, nei boschi di faggi, nei prati delle Macinare e nelle fonti di Acquafredda (La sorgente Scirca era già stata sottratta dai perugini agli ingenui costacciaresi) per finire, la poverina, a Bologna dove don Gavinelli la unì nel sacramento del matrimonio col suo carnefice. Destino infame. Come diceva lui, il boia, meglio di così non gli poteva andare.
Altri grideranno che finalmente non c'è più quel capitalista che aveva nella Robba (fossile) di siciliana memoria il suo miraggio. Liberale convinto, mai si convertì alla fede comunista che da un paio di secoli è intenta a sottrarre alla cristianità il monopolio della beatitudine facendola diventare terrestre anche se in questi ultimi anni gli acerrimi nemici si sono coalizzati per sotterrare all'umanità quel cancro che è il capitalismo. Viva i GULAG, il KGB, il COMINTERN, le lunghe file quotidiane per un tozzo di pane, le botteghe completamente vuote in cui i felici comunisti non riuscivano a spendere il denaro guadagnato perché la produzione non compensava la moneta circolante ed altro: tutte balle spacciate dalla Cia e non se ne doveva parlare. Il comunismo italiano sarebbe stato un sogno, mentre quella altre venti dittature comuniste piene di crimini contro l'umanità erano solo errori che noi italiani, popolo di navigatori, filosofi, artisti, cuochi e tanti altri geni avremmo traformato in un Eden terrestre. Lui, sempre dubbioso ciò se l'era andato a vedere oltrecortina per dar conferma o meno alle storielle degli avversari che non volevano dar credito alle immacolate verità dell'Unità divo giornale del partito comunista italiano, secondo solo a "La difesa della razza" del razzismo nazionale. Il PCI confluì con gli odiati democristiani nell'odierno Partito Democratico (Poltrone democratiche) che ha cambiato nome, ma non obiettivo, il tutto con la pontificia benedizione. Come ebbe a dire questo Guerra ad un caro amico, rovente comunista
Tu morirai democristiano
e il poveraccio tacque. Non gli mancò l'occasione di dire a qualche democristiano
Tu morirai comunista
Anche lui tacque
ma da un caro amico libraio, toscanaccio e comunista fino alle midolla si sentì dire poco prima della dipartita:
Caro Romano, il comunismo e il liberalismo sono in fase di estinzione
e Romano tacque.
Trasferte in Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria e nella mezzadra Jugoslavia avevano confermato le sempre dubbiose sue idee, da quando, andando a Praga per una mostra di minerali e fossili, ne poteva essere altrimenti, si trovò in frontiera una sbarra che neanche un carro armato T 34 a tutta palla avrebbe potuto scalzare. Lo perquisirono da paraurti a paraurti, quello davanti e di dietro, con particolare attenzione al vano motore in cui, pensavano, poteva nascondere qualcosa di ostile al regime comunista dentro a qualche camera di combustione. Ci fu abbondante impiego di specchi con cui la ligia polizia andò a vedere cosa poteva nascondere quel capitalista sotto la macchina: dopo un paio d'ore di indagini e interrogatori di quarto o quinto grado gli fu permesso di entrare in Paradiso, quello proletario. Baratti, barattini e molti acquisti di interessanti fossili con gli odiati marchi che facevano gola esasperata a quel popolo proletario! La fame o il desiderio di quella sporca valuta, Guerra e signora, la conobbero quasi subito: cambiato al botteghino di frontiera che aveva rilasciato ufficiale attestato di cambio, al primo bar di Praga i due novellini furono avvicinati da un cameriere che offrì un cambio doppio. Fu una pacchia perché i due capitalisti, sporchi capitalisti, poterono comperare tante belle cose a poco. Si fecero anche qualche amico e furono accompagnati in giro a trovarsi in sito qualche bel trilobite. Uno dei posti era ubicato a poche centinaia di metri da una base russa anche se i russi non furono mai visti in circolazione. Era bastato il 1968. Gli amici parlavano solo se erano soli e in macchina (non sono balle) perché i delatori erano sempre attivi. Uno di questi amici il giorno prima della partenza per Vienna e poi per Budapest dove di mostre di minerali e fossili ce n'era un'altra ebbe a dire:
Vedi, caro Romano, io ti invidio perché tu domani vai dove ti pare. Io no!
Era vero: arrivò verso sera al posto di frontiera di Znojmo: oltre alla sbarra anticarro armato, si vedeva benissimo la doppia fila di reticolati e la strada che correva fra essi con le camionette che la percorrevano frequentemente, cani, il tutto illuminato a giorno dai fari. Lasciò quell'enorme campo di concentramento con la convinzione che la nostra scelta politica non era sbagliata.
Un'altra volta si erano sistemati lui e sua moglie in un campeggino a pochi chilometri da Praga. Il responsabile del campeggio, quando i due gli porsero i passaporti ebbe a chiamarli Kapitalist, al che il Romano che a volte non riusciva a tenera la lingua al suo posto gli rispose
Ti piacerebbe.
L'uomo tacque. In quel camping i Guerra si erano fatti amici di due tedeschi DDR e chiacchieravano frequentemente col tedesco maccheronico del Romano: una sera arrivarono furiosi dalla capitale imprecando a destra e sinistra perché al giorno erano finiti in uno di quei negozi che vendevano prodotti di una certa qualità con pagamento nella vituperata valuta occidentale. Si erano invaghiti i poverini di un bel servizio di cristallo di Boemia e quando si presentarono per pagarlo con i marchi DDR gli fu negato l'acquisto.
Forse erano finiti nel cesso del paradiso comunista.
Capitò tempo dopo che un'amica della coppia, furiosa comunista, venne alla casetta di Costacciaro a raccontare la sua straordinaria visita nel paradiso sovietico dei lavoratori. Ogni pelo o capello sprizzava felicità e stupore: I Guerra chiaramente reduci da una di quelle esperienze di cui si è dato conto, ascoltarono e non ribadirono per non attivare la terza Guerra mondiale. Qualche anno dopo, quando la temperatura dell'interessata, con attente riflessioni era tornata all'umano 36,5 ebbe a dire che la relazione era stata alterata dell'esagerato fervore e che la realtà d'oltrecortina era decisamente deludente. Non si parlò più di ciò. Altri andarono, "godettero" e rimasero gaudenti o almeno così apparvero o così gli convenne: misteri dell'umanità.
Ne sapeva qualcosa lui che abita a pochi metri da quella storica via Tibaldi 17 in cui Achille Occhetto, a tre giorni dalla caduta del muro di Berlino (il muro cadde sulla testa dei comunisti e non dei capitalisti) pensò bene, in nome della sua poltrona e di quella dei suoi colleghi di partito, di cambiar casacca nel vicino lavasecco di Ivo togliendo o facendo conto di togliersi di dosso la storia cinquantenne del PCI che aveva tentato in tutti i modi di vendere al pubblico italiano quell'evanescente prodotto ed in parte c'era riuscito. Ora di quello storico evento, simbolo sublime del camaleontismo mondiale, c'è solo un cippo in piazza dell'Unità, in cui si miscela la così detta battaglia della Bolognina di bellica memoria con la storica svolta del piangente Occhetto che aveva dimenticato tutte le balle propinate allo stupido popolo italiano e che per decenni aveva organizzato le famose feste dell'Unità che spesso nella purpurea Bologna avevano preso l'aspetto di adunate oceaniche di mussoliniana memoria sotto la regia di quel modesto Berlinguer, degno simbolo del proletariato italiano che malgrado cosa ne pensava l'interessato, era diventato capitalista. Il Romano non ci stava forte con quei comunisti che erano diventati ricchi e con i tanti industriali, artigiani e commercianti che si ritenevano parte della grande famiglia rossa. Passato il periodo in cui frequentò il Partito Liberale Italiano, se ne andò anche da quel consesso quando venne a sapere che anche quelli della sua parte avevano mangiato a quattro palmenti sulle spese pubbliche: anzi le cose che lo portarono molto vicino al vomito furono che quei ladri erano colleghi di partito, erano ricchi ed uno di questi, ministro della salute, aveva mangiato sulla pelle di malati e moribondi. Giurò davanti alla statua del Nettuno sotto l'occhio vigile del grande dio marino, di putti, delfini e nereidi che non avrebbe più frequentato partiti. Il fedifrago ancora una volta si rimangiò la parola. Il demente (scusate il sostantivo, ma meglio di questo non si è capace di trovare) si andò a iscrivere a Forza Italia. Vivacchiò in quel consesso fra alti e bassi mangiando qualche zuccherino e qualche rospetto finché arrivarono un paio di eventi che lo paralizzarono: venne fuori tutta la storia delle olgiatine, delle varie cene osè in compagnie discutibili, trenini e varie altre attività non proprio sante. Non digerì, malgrado chili di bicarbonato, la notizia, perché riteneva che il suo presidente del consiglio non dovesse appartenere a quella categoria. Il colpo di grazia venne poco tempo dopo. Salito alla sede di Forza Italia, qualche tempo prima di un'elezione comunale, chiese chi fosse il candidato per quelle elezioni e gli fu risposto che attendevano da Roma il nome. La goccia fece traboccare il vaso traboccante perchè il Guerra si sentì ridotto a semplice battitore di mani in occasione di comizi di pezzi grossi: si dimise e tornò a giurare dall'amico Nettuno che non avrebbe più calcato i sentieri politici del passato. Ciò non accadde, ma ricadde in altri peccati politici mortali come il voto a Renzi, l'Alcibiade italiano, a Salvini che voleva salvare il Nord e l'Italia ripassando alla lira. Da quando il crudele destino ci affidò alla sante mani di questo santo padre che dirige quello che una volta era l'ateo Partito Comunista Italiano a cui si sono associati anche i corpulenti forchettoni democristiani e quelli di tendenza socialistoide che furono equiparati agli squali (Genere Charcarodon megalodon), la speranza di una ripresa nazionale non gli appartenne più anche perché la ridicola entrata in scena dei grillini guidati dal ridicolo buffone nazionale, gli fece perdere la speranza di una ripresa economica e sociale e cadde in una tal depressione che forse fu la causa primaria del suo decesso. Dove potrà andare la nostra miserabile Italia? diceva lui negli ultimi suoi giorn i valutando il presidente del consiglio che di mestiere faceva il ciarlatano in un governo comunista che deve guidare una nazione capitalista con un ministro dell'economia che lui paragonava ad un lupo che doveva condurre un gregge di pecore.
Poi anche il coronavirus assalì questa povera nazione dal passato glorioso e dal presente miserabile. Poco prima di andarsene confessò che quando vide quella delizia di bambina che è Letizia dell'appartamento a fianco, quasi si metteva a piangere al solo pensiero che quella bimbetta aveva già sulle spalle un debito di quarantamila euro, ed era appena nata, debito che quella creatura si tirerà dietro per tutta la vita e che crescerà ulteriormente. Povera e cara Letizia! Con questi governanti pronti a sparare caricatori e caricatori di balle a questo popolo bovino e a continuare nella strada dell'indebitamento, per lei non c'è speranza. Lui dall'alto dei cieli o dalle profondità della terra nulla potrà fare se non dire alla Totò: arrangiatevi!
Ancor oggi, pur essendo deceduto lo storico giornale "l'Unità" mancando i fondi che venivano da Mosca, continuano le feste dell'Unità che nulla hanno più a che fare con quelle colossali del passato, da cui è bandita la parola proletario e nelle quali si ricorda con nostalgia lo sventolio di bandiere rosse, i patacchini propinati da qualche fervida fanciulla cresciuta a pane e PCI in cambio di qualche spicciolo che serviva a tirare avanti la causa e principalmente grigliate e mangiate a cui lavorarono focosi proletari in modo assolutamente gratuito per dare il loro modesto, ma indispensabile contributo alla vittoria della causa. L'avesse fatto un padrone di non retribuire i dipendenti! Il tutto per alimentare quella meravigliosa macchina organizzativa che serviva a supportare l'elezione dei loro capi che tutto avevano forchè l'aspetto di proletari: e qui Bertinotti ed altri fecero testo vestendo e trattandosi meglio dell'odiato Agnelli all'anima della guerra di classe che come dice un motto è scomoda. Proletari sì, ma a modo loro. Ultimamente gli accadde di vedere enormi cartelli con scritto "Bella ciao" e del resto ben poco si vedeva. Ritenendo che fosse un cartello delle sardine o dell'ANPI o del PCI, si era fermato ed aguzzando moltissimo gli occhi scoprì che si trattava della mitica festa nazionale dell'Unità: che pena!
Ritornando all'argomento senza il quale la biografia del Guerra non avrebbe consistenza, dopo aver appeso il registratore di cassa ad un chiodo, il poveraccio si mise a fare lo scribaccino e l'incantascimmie raccontando, che cosa? I fossili e come gli italiani li avevano studiati nei secoli passati, storia che questo individuo riteneva alquanto lacunosa. Per qualche immeritata fortuna, cosa che sempre lo caratterizzò durante il suo quasi secolare impegno per quel genere di pietre, trovò un po' di spazio in alcune riviste. Ci riuscì il fortunato e così ebbe a strimpellare alcuni brani storici, anche con qualche cosa di nuovo, ma non troppo. Nello stesso tempo tirò avanti in collaborazione dell'amico Roberto Zorzin (ma chi glielo fece fare di mettersi in combutta con un elemento bolognese di tal guisa) una bibliografia di Bolca da cinquemila titoli che qualcuno di quel museo definì, benignamente, elenco telefonico.
Altra carta più che stampata, sporcata fu quella delle pagine di
Parva naturalia
di Piacenza di cui pubblicò tre monografie dedicate a mammiferi fossili dell'Emilia-Romagna a riprova dello spreco che le pubbliche istituzioni fanno del pubblico denaro.
Presi da umana misericordia, gli pubblicarono alcune sue boiate (perdonate la quasi parolaccia) gli amici Sensi e Famiani in
Fossils & Minerals
che gli riservarono sempre qualche pagina per non affrettarne il decadimento fisico. In effetti questa rivista è il prosieguo del famoso Bollettino che il glorioso Andrea Travaglini di Riccione pubblicò finché morte non lo colse e in cui Guerra scrisse nei preistorici anni Settanta qualche articoletto.
Il poveretto, invece di calmarsi in tarda età come succede a molti rinsaviti dalla vecchiaia, si era ulteriormente rinfocolato. Andò dal sindaco di Costacciaro Andrea Capponi a prospettargli un congresso sui temi geologici e paleontologici dell'Appennino umbro-marchigiano: ebbene il giovincello abboccò e il congresso fu fatto con grande presenza di forestieri e fra la più completa assenza dei paesani che anche quella volta non vollero sapere come era fatta la terra che calpestavano fin dalla loro nascita a riprova che sto bolognese del cavolo fin dalla sua nascita non aveva capito un cavolo, tanto più dai tempi sciagurati del suo matrimonio con quella costacciarese.
Alcuni dicono che ci sarà un seguito e che Guerra vigilerà dall'alto dei cieli su APPENNINICA 2021, coronavirus permettendo.
Anzi ci fu guerra con Guerra. Il pirla, per chiamarlo alla lombarda si era messo in testa di chiamare i compaesani della moglie costacciaresi, avendo tratto ciò appunto dallo zio acquisito Efrem buon poeta e letterato. I compaesani suoi, ciò a causa della cittadinanza onoraria, si coalizzarono nel confermare la quanto mai poco poetica parola di costacciaroli che fa bella rima con fagioli, buglioli e chi più ne ha più ne metta in conflitto con gli altri. Le guerre dei cent'anni, trent'anni e via così furono scherzi da ridere e alcuni esperti che sono stati interpellati dalle parti hanno confermato che durerà fino al quarto millennio. Intanto il poveretto subisce i quotidiani assalti canori di tonalità tenorili e baritonali che i giocatori di carte del vicino bar gli sparano nei pomeriggi sonnolenti ma turbolenti durante l'ambitissima pennichella pomeridiana. Costacciaro che a differenza del debito pubblico italiano che sempre cresce, sempre cala come numero di abitanti, giorno verrà, presago il cor mel dice, al posto dei cartelli posti dalle sovietizzanti amministrazioni che governarono questo comune in modo talmente saggio da portarlo in coma profondo, che ammoniscono il viandante che in quella terra benedetta non vi fu mai traccia che puzzasse d'atomo, verranno opportunamente sostituiti. Pare che sia già pronto il seguente sonetto
O passegger della vetusta Flaminia
che passi sotto a questo fatal paese,
prega per le pietre di Costacciaro
che di uomini e donne, il posto è vuoto.
Ignoranza e invidia così lo ridussero,
ne tanto potè il beato Tommaso
che tanto fece pensare un dì
quanti emme necessitava il nome
e dove collocati andavano.
Gli abitanti suoi son tutti al Caprile
dove dormono il sonno eterno.
Un Padre Nostro e una Ave Maria.
(Anonimo paesano)
Ebbene il poveraccio ogni tanto si lamentava che in tanti anni di pubblicazioni, nessuno, nessuno lo aveva gratificato di qualche giudizio o recensione ne' positivo ne' negativo, una specie di damnatio presentiae. Si consolava lo sconsolato che questo era il segno tangibile del successo. Diceva lui, che si riteneva studioso dell'invidia, che proprio questa bestia che nidifica a suo dire in ogni cervello umano, era la fonte di tanto silenzio. Il "filosofo" che non ha mai digerito la filosofia, diceva che l'invidia si divide in due categorie, quella positiva e quella negativa: la prima, di cui lui si riteneva portatore, è quella che vuole che l'individuo affetto faccia di tutto per superare l'invidiato in una sorta di competizione in cui deve vincere il migliore. La seconda, quella più comune a suo dire è quella che vuole che il soggetto tenti di aggredire e di stroncare il concorrente in tutti i modi, anche illeciti. Orbene il silenzio era dovuto a questa causa, che a giudizio di molti era una forma di autoconsolazione. Queste panzane erano il frutto delle sue sedute quando lavorando in Lombardia una volta al mese andava da Lodi a Bologna (da non confondere con la bella Gigogì che andava da Lodi a Milano) in Turum Turum come chiamava il nipotino Alessandro lo Scudo, camioncino del nonno che il nonno stesso avrebbe voluto attrezzare a camperino per girarsi il mondo alla pensione. L'idea ebbe il veto della moglie e il Turum-Turum fu venduto con un certo dolore alla fine delle ostilità lavorative.
Il Guerra tanto si diede da fare che, impietositosi qualcuno, fu iscritto all'Albo d'oro della Paleontologia del comune di Castell'Arquato. Anche qui ci fu una sceneggiata: il Guerra non contento dell'onorificenza, chiamò al podio la moglie Giuseppina e impose a giuria e platea che anch'ella firmasse il documento di accettazione: Guerra impose questo dictat asserendo che anche la poverina, che non era stata per niente informata dello sgambetto e ne rimase sbigottita, aveva contribuito al "successo" del marito e ne aveva pieno diritto. L'assemblea non solo ingoiò il rospo ma addirittuta applaudì e Giuseppina firmò.
Poco prima del fatal evento si era messo a scrivere le sue memorie o meglio quel poco che gli era rimasto in testa della sua vita dopo l'ultimo stadio di pietrificazione a cui andò soggetto negli ultimi tempi. Diceva l'interessato che poteva andarsene sereno e tranquillo perché in vita meglio di così non gli poteva andare e che non aveva mai invidiato l'invidiatissimo numero uno d'Italia ovvero il Gianni Agnelli che, malgrado i suoi soldi aveva un problema per capello. Andava dicendo nelle ultime sue elucubrazioni che se ne poteva andare sereno salvo il problema della moglie che malgrado tutte le sue angherie a quell'animale umano un po' di bene gli voleva e tutto ciò a maggior divina gloria che senz'altro porterà la martire alla proclamazione di santa Giuseppina da Costacciaro di cui nel paese natale è già stata individuata la cappelletta a lei dedicata. Con tre figli sulla verginità sorgerebbero dei dubbi. Anzi la si potrebbe anche nominare confessore o confessatrice (lasciamo alle vaticane corti questo problema dogmatico e glottologico) perchè la poverina fu sempre costretta, malgrado il suo animo "beniamino" ad ascoltare le boiate che frequentemente uscivano da quella bocca infernale dovute principalmente alla contaminazione bolognese che il bolognese aveva ricevuto dalla patria d'origine, Bologna, che in fatto di parolacce non ebbe mai rivali, e non è chiaro dove viene collocata nella graduatoria mondiale dei dialetti più luridi: qualcuno proporrà Bologna come sito UNESCO delle sozzure e sia certo, il titolo gli sarà concesso con tanto di diploma in cartapecora e scrittura d'oro. Peccato che i bolognesi o meglio dei sopravvissuti bolognesi a queste ultime inondazioni terzomondiste, non lo abbiano mai proposto. Comunque la Giusy aveva attinto dalla Tina di Fabriano ampie istruzioni su come dovevano essere ascoltati certi mariti e su come si doveva procedere per non perdere la meritata santità.
Sulle cause del decesso di Guerra, sono nate controversie che hanno riempito pagine e pagine di giornali dei quali e senz'altro primeggiò La Repubblica, degna seguace dell'Unità. C'è chi dice che sia stata una colica dovuta a calcoli paleontologici (qui la matematica non c'entra) dovuta ad eccesso di fossili nei reni e altri invece giurano che furono le salsicce del Toppo. Purtroppo, per misteriose ragioni, il corpo si mise a puzzare terribilmente (come aveva fatto per tutta la vita) e fu interrato. Fece appena in tempo a dire ai presenti che odiava i fiori sulla sua tomba e che sarebbe venuto a tirare i piedi a chi glieli avrebbe portato, ma che una croce era a discrezione dei sopravvissuti.
Un'altra delle innumerevoli manie di questo balzano erano le Madonne, e qui la blasfemia non c'entra. Fu forse una contaminazione coniugale che da ogni viaggio in terre cristiane, si portava a casa una Madonna che appendeva nella sua camera da letto; ne aveva oltre ottanta e se morte non lo avesse colto, allo scoccare dei cent'anni ne avrebbe avuto un centinaio malgrado il posto per esporle era finito da tempo, ma qua e là riusciva ancora ad inchiodarle. Andava dicendo a quelli che andavano a vedere quella stanza che quelle sante immagini gli davano serenità e gli calmavano le turbolenze.
Ora dorme il suo sonno eterno. Sarà vero? o sarà già andato in giro per le nubi celesti a vedere se c'è anche lì qualche sasso e qualche fossile e a cercare dove fanno il mercatino dell'antiquariato delle sfere celesti. Probabilmente vuol rifarsi collezione e biblioteca: ce la farà senza dubbio.
Ritornando a certe vecchie cronache, poche settimane dopo il ritorno dall'Umbria dove vi aveva lasciato, a suo dire un ventricolo e un'orecchietta cardiache, ci fu il diciottesimo compleanno, il desiato diciottesimo.
Ci furono patente di Guida e licenza di caccia.
Per la patente, non aveva bisogno di lezioni perchè gliele aveva già impartito il padre. Questi si era comperato un poderetto in quel di Castel dei Britti e quando si andava in quella casa, al bivio della strada di val d'Idice e della via Emilia, Armando cedeva il volante al figlio che portava il mezzo a destinazione: ciò fin dall'età di tredici anni. Quando sotto la guida dell'autoscuola Masi si presentò il 15 ottobre, il giorno dopo il diciottesimo compleanno, all'esame di guida insieme ad altri candidati, fu l'unico ad essere promosso. Come poteva iniziare la sua carriera di autista quel tapino? Prendendo una Topolino furgone per andare a vedersi la biondina umbra. Da allora anche lui non è più riuscito a tenere il conto perché di automobili ne ha stremate tante e tanto spazio necessiterebbe la sua storia automobilistica che a fare l'autista si è sempre divertito come un matto.
Sempre a cavallo del diciottesimo compleanno, gli arrivò la licenza di caccia: come, dirà il lettore, non aveva già quella della ricerca di sassi? Si trattava proprio di quella della classica caccia. La cosa era stata attivata dalla grande passione del padre Armando in questo che chiamano sport e che dovrebbero chiamare ornitoricidio.
Ci era finito fin dall'età di otto, nove anni proprio in val Samoggia, al seguito del padre cacciatore da cui imparò in giovanissima età a tirare di doppietta tanto che al balzo del Musico di paleontologica memoria, con un colpo secco tirò giù una povera pujana. Lì vide le prime conchiglie fossili che qualcuno gli disse che erano lì dal diluvio universale: interessante, disse il bambinetto.
All'età di diciotto anni ottenne appunto la licenza di caccia anche se quelle conchiglie del diluvio non erano più del diluvio ma avevano due o tre milioni d'anni: interessante disse il ragazzo.
Il bello della licenza di caccia era la foto con baffi del Guerra, baffi che rimasero unici e non ebbero lunga vita perché l'umile Giuseppina gentilmente gli chiese poco dopo di tagliarseli e lui rispose: obbidisco!
Orbene col il fratellino minore Cesare se ne andarono una domenica mattina a Pontecchio Marconi, passarono il ponte a cavi sul Reno, piazzarono a macchina in un viottolo di campagna e si avviarono alla battuta. Un povero e sfortunato uccellino, impaurito dall'avvicinarsi dei due, spiccò il volo: l'ultimo di vita sua. Romano sparò, corse, raccolse il corpicino di quella povera creatura e disse all'amico Cesare che quella era crudeltà e vigliaccheria. L'uccellino fu seppellito con tutti gli onori e i due tornarono a casa dove Romano appese per sempre il fucile da caccia. Poco dopo, come scritto, fu la volta dei baffi. Il padre aveva definitivamente perso un compagno di ventura nelle battute di caccia.
La madre Novella donna pratica e burbera dal cuore d'oro, ma statica come una quercia marchigiana non ha mai fatto l'abitudine alla mobilità del figlio che per correre dietro a quelle pietre si masticava decine, centinaia e migliaia di chilometri ed anche decine di migliaia quando se ne andava a oriente o a occidente del Mediterraneo. Il Romano sapeva benissimo che la madre passava tutto il tempo in cui era in viaggio col cuore in gola: cosa ci poteva fare combattuto com'era dall'affetto filiale e dal furore pietrificante.
Quando era possibile Romano mandava ai suoi vecchi un telegramma ogni settimana, ma ci furono delle volte che il telegramma venne spedito con intervallo di tre settimane.
Tutto bene, Romano e Giuseppina
era il normale testo, perché così sempre fu e con la fortuna che accompagnò sempre questo matto, non successe mai nulla salvo qualche leggero incidente. Una volta in Marocco, per un beccheggio in pista si ruppe la pompa dell'olio; dovette decidere se riparare il danno in sito o rischiare il ritorno senza pressione dell'olio: scelse la seconda soluzione ed arrivò a Bologna felice e contento. Altra volta finì sotto un camion con grave danno alla carrozzeria: se ne tornò a casa mezzo sgangherato. Un'altra volta, per scartare una serpe, gli si sganciò il rimorchietto che ruzzolò per un centinaio di metri rischiando di impattare l'automobile; anche quella volta col rimorchietto sbrindellato se ne tornò a Bologna. A casa la madre lo accoglieva sempre confessandogli tutte le sue preoccupazioni e con la storica frase
Aveir un fiol soul e mat (avere un figlio solo e matto)
Non aveva tutti i torti: Aurelio l'altro figlio gli era morto in un incidente d'auto al chè il figlio degenere rispondeva che era lei che lo aveva generato. Anche il padre Armando non era sereno, ma camuffò sempre la sua ansia.
I due vecchi, da quando Armando si era ritirato dall'industria dolciaria, aiutavano questo folle figlio con la produzione di cartelline con minerali e fossili con cui Romano finanziava le sue pazzie.
Da genitori poteva andargli meglio, ma come ebbero a scrivergli in un bigliettino, si ritenevano i genitori più felici del mondo.
Armando rimase molto dispiaciuto quando nella divisione dell'azienda si ritirò a vita privata, anche perché Romano era uscito dall'azienda dolciaria attivandosi immediatamente con i fossili e minerali con cui intendeva farsi una piccola attività. I genitori per un certo periodo di tempo erano preoccupati che Romano se la cavasse e spesso rimpiansero che la fabbricheina non se l'era tenuta.
L'ha la fameja peisa peina d'esigenz (ha la famiglia pesante piena di esigenze)
diceva la Novella sempre preoccupata, ma Romano se la cavò.
Anche anni dopo per loro era incredibile come si potesse lavorare e sfamare la famiglia a cercare e vendere fossili e minerali, loro che mai compresero esattamente cos'erano e ogni tanto la fabbricheina saltava fuori come un tappo di sughero in una vasca d'acqua.
In sette mesi Romano e Giuseppina persero i genitori: i due, addoloratissimi, non poterono che constatare che questa è la vita e questa è la natura e che da figli avevano cercato di fare il loro dovere e speravano di esserci riusciti.
Pochi anni dopo cominciarono ad arrivare in nipotini.
La vita continua, sempre meravigliosamente.
(Continua, salvo dolorosi imprevisti)

Alessandro e Ta sulla coda del brontosauro al Parco della Preistoria
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Con Andrea in Marocco
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Due cuori, una capanna in Yemen
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